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giovedì 13 ottobre 2016

Alcune considerazioni sul Dopo di noi



Recentemente mi è stato chiesto di fare una ricerca sul DDL 112/2016 (la famosa legge del Dopo di noi) ma, soprattutto, sull'istituto del Trust, usato espressamente dalla legge. Qui alcune mie considerazioni alla fine della ricerca. Ovviamente non ho la presunzione di essere nel giusto. Non sono un avvocato, né tanto meno un esperto di trust. Faccio solo alcune mie considerazioni, e francamente spero di sbagliare.

In Italia non ci sono molte leggi a tutela della disabilità: c’è la famosa legge – quadro 104 del 1992, che delinea tutta una serie di diritti del disabile, la legge 169 del 1999, che estende la legge della 104, ma soprattutto la legge 328 del 2000, rivolta esplicitamente alla tutela dei disabili gravi e gravissimi, e che ha per oggetto il sistema integrato di interventi per i servizi sociali.

Tuttavia questa è una legge di riforma dei servizi sociali, e non focalizzata essenzialmente sul disabile. In quanto alla 168, si rivolge a un tipo di utenza particolare, con normali facoltà di autodeterminazione ma capacità motorie estremamente limitate. Ma soprattutto nessuna di queste leggi tocca l’aspetto patrimoniale.
Quella delineata dalla legge 112 è certamente un tipo di tutela “forte”, rivolta ad una categoria di utenza priva, a causa delle proprie patologie, della capacità di autotutela. Parlo, ad esempio, degli autistici gravi. Finora le alternative per la loro assistenza non erano molte: nella famiglia, qualora il disabile avesse la possibilità di essere assistito da un parente, o l’istituzionalizzazione del disabile stesso. Per la gestione patrimoniale sarebbe stato delegato dal tribunale un amministratore di sostegno che aveva soltanto potere di gestione dei beni patrimoniali del disabile. In ultimo ci sono le case famiglia.
Certamente il trust riflette la visione anglosassone della natura privata di qualsiasi contrattazione economica, sia nel caso di una impresa che di un accordo privato tra persone fisiche, come nel caso della disabilità. Infatti il terzo settore è solo un ambito di applicazione del trust, che nei paesi anglosassoni è un istituto fondamentale.
Quello che fa il trust è di semplificare estremamente i rapporti economici. C’è un tutelato (il truster), un tutore (il trustee) e un controllore (il guardiano), senza altra mediazione. Entrambi, poi, sono nominati dal diretto interessato e hanno l’unico scopo di fare gli interessi di quest’ultimo; e la stessa legge 112 lo dichiara esplicitamente. D’altra parte “trust” significa, tra le altre cose “fiducia”, il che comporta che questo è un rapporto fiduciario che si instaura con un preciso scopo, che nel nostro caso è l’interesse del disabile. Mancando questo si va contro la stessa natura del trust e si entra nell’ipotesi di reato di appropriazione indebita.
Certamente in questa legge ci sono molti aspetti positivi, a cominciare dall’idea della deistituzionalizzione e della costituzione di un fondo in favore della persona disabile. Questo non sarà solo formato, a livello centrale, “ritagliando” una percentuale d’introiti provenienti dalla tassazione (come si è sempre fatto), ma provvederanno anche regioni a incrementarlo, e si potranno anche stipulare accordi privati allo scopo di aumentarne la dotazione. Inoltre lo stato di attuazione della legge dovrà essere verificato triennalmente.
A livello personale il tutto concorre alla creazione del fondo: aiuti statali e regionali, beni in possesso dello stesso disabile, operazioni successive all’instaurazione del rapporto di trust. Questo comporta che, mentre l’amministratore di sostegno ha semplicemente l’obbligo di amministrare i tuoi beni per un periodo più o meno lungo, in un certo senso “congelandoli” fino a che il legittimo proprietario non ne rientra in possesso, col trust è anche possibile incrementare il fondo (ovviamente, però, sempre finalizzando al superiore interesse del tutelato).
Ma qui casca l’asino. Il problema, in questo caso, non è tanto il trust, quanto il suo uso in senso malevolo. La flessibilità, punto forte del trust, potrebbe anche essere il suo limite.
Nella mentalità anglosassone, certamente più pragmatica, non si vogliono molti ostacoli negli affari. Un amministratore con ampi poteri e un controllore del suo operato (dopo tutto i ladri sono pure in Inghilterra) bastano. Chiaramente il patrimonio viene affidato a gente di fiducia che si adopererà non solo per conservare, ma anche per incrementare il fondo. I vantaggi fiscali sono notevoli.
Però siamo in Italia. Innanzi tutto, visto che il trust è un rapporto fiduciario, è il caso di stare bene in guardia. La legge è rivolta a disabili “privi” di sostegno famigliare, non di famiglia. Magari il disabile ha una sorella che, per casini suoi, non può prendersi carico degli interessi del fratello. Tuttavia il famigliare sarebbe bene che sia attivo in questo rapporto, se non assumendo il ruolo di tutee, perché magari privo di competenze, almeno il ruolo di guardiano, visto che, data la semplicità del rapporto, privo di mediatori (mentre nel caso dell’amministratore di sostegno il rapporto è mediato dal tribunale).
La legge parla di de istituzionalizzazione, e questo esclude che case di cura o altri istituti possano direttamente ricoprire il ruolo di tutee (tramite un loro incaricato ovviamente). Forse lo stesso limite è per le case famiglia. Ma nulla vieta che un istituto possa gestire delle abitazioni private. Fatta la legge trovato l’inganno.
E questa, a parer mio, è la prima anomalia. Certo, come detto gli Istituti non possono gestire direttamente il rapporto (e infatti si stanno muovendo per creare abitazioni gestite solo indirettamente da loro), e d’altra parte lo stesso trust non esclude che il tutelante possa essere un’associazione o un ente. Tuttavia si tratta sempre di un accordo di natura privata. In questo accordo gli attori sono: il beneficiario, la struttura privata, la famiglia. Proprio a quest’ultima deve essere affidato l’onere del controllo.  
Ho fatto l’esempio di una sorella che svolga il ruolo di guardiano. Questo non è vietato. Tuttavia anche questo, in genere, è un ruolo svolto da un’altra persona, espressamente indicata, insieme al trustee, dal truster (che, ovviamente, non può essere direttamente il disabile). Sarà lui a “controllare” l’operato del guardiano. Se questo svolgerà bene le sue funzioni, automaticamente sarà chiaro che il trustee agisce unicamente nell’interesse del disabile.
Per questo mi chiedo se il trust sia un mezzo di tutela o non debba essere, invece, un ulteriore strumento al quale possa ricorrere un amministratore. Il trust è un istituto molto pericoloso che richiede una partecipazione attiva. Per questo non sarebbe assurdo se in futuro soggetti che usufruiscono di progetto di Vita Indipendente possano ricorrere all’istituto del trust.
Il problema a questo punto è: e quelli che non hanno alcun famigliare? O peggio, magari, ha i famosi parenti – serpenti. In questo caso quale sarà il suo destino?

mercoledì 8 giugno 2016

QUEL CHE MANCA IN ABRUZZO PERCHÉ SI POSSA PARLARE DI VITA INDIPENDENTE

Ritengo che ciò che manca in Abruzzo è un corso di formazione specifico sull’Assistenza Personale Autogestita (o Vita Indipendente). In genere questo è un servizio offerto dalle diverse agenzie Sparse nel mondo.
In Italia la situazione è variegata. La regione Veneto, ad esempio, organizza specifici corsi di formazione organizzati dall’Agenzia di Vita Indipendente finalizzati alla promozione della Vita Indipendente, nei quali si parla anche del rapporto giuridico che deve intercorrere tra assistito e assistente, quindi gli obblighi contrattuali, le sue mansioni, i suoi diritti e la sua retribuzione. Anche l’A.V.I. Lazio offre un servizio di formazione, rivolto principalmente al disabile in qualità di datore di lavoro, e fornendo supporto amministrativo nel rapporto contrattuale (anche nei casi di criticità del rapporto).
In Toscana ci sono state esperienze simili. Nel 1998 venne organizzato un corso rivolto agli assistenti personali nell’ambito del progetto “Modello per la costituzione di una agenzia per la vita indipendente”, cofinanziato dall’Unione Europea. Un secondo corso si è tenuto nel 2001 nell’ambito del progetto “La Vita Indipendente delle persone con disabilità”, e un terzo corso si è tenuto nel 2003.
Nelle Marche, infine (tanto per finire questa rapida disamina), esiste tutta una normativa sulla Vita Indipendente, ma non viene previsto nulla di specifico riguardo all’assistenza.
Forse le figure che si avvicinano di più in Abruzzo sono quelle dell’Operatore Socio Sanitario (impegnato in mansioni di assistenza domiciliare) e di quella di Operatore Socio Assistenziale. Entrambe le figure svolgono ruoli piuttosto simili, anche se la seconda è più rivolta all’ambito sociale, mentre la prima a quello sanitario. Il problema è che queste figure, classificate come “di rilevanza socio sanitaria”, operano in strutture residenziali e semi residenziali, ed anche se possono fornire assistenza domiciliare, difficilmente possono assicurare il tipo di assistenza richiesta dalla Vita Indipendente.
Poi esiste l’Assistenza Domiciliare Integrata, ma questa non riguarda direttamente la Vita Indipendente, in quanto offre supporto di tipo sanitario, avvalendosi degli operatori competenti in diversi settori: riabilitativi, infermieristici, educativi (per la gestione burocratica delle pratiche assistenziali, oppure informazione sull’uso corretto dei presidi sanitari). In pratica, manca una figura professionale ad hoc, e molti disabili sono costretti al “fai da te”, ad esempio, assumendo i propri famigliari come assistenti, oppure cercando in giro persone più o meno competenti nel campo dell’igiene personale, o che abbiano svolto un lavoro da colf, ecc.
Ovviamente tutto questo non è un’inadempienza della Regione. La legge è del 2012, siamo ancora agli inizi (come dire, “è fresca di stampa”) e la stessa cultura della Vita Indipendente deve ancora diffondersi, anche presso gli stessi disabili.
Forse una possibile soluzione potrebbe essere quella di prevedere, a livello sperimentale, dei corsi regionali (organizzati da qualsiasi ente di formazione accreditato, sia pubblico che privato, aperto a tutti coloro che siano interessati all’Assistenza autogestita). Se questi avranno successo, si potrebbe aprire una cooperativa che si occupi di Assistenza, sul modello della cooperativa svedese STIL.
Valenino Ciccocioppo

lunedì 30 maggio 2016

Comunicato della F.I.S.H. sulla proposta di legge per l'assistenza in favore delle persone con disabilità grave

Già dalle prime dichiarazioni degli stessi proponenti della legge sul “Dopo di noi” era emerso che non si sarebbe trattato di un provvedimento in direzione dell’indipendenza e diritto di scelta per le persone con disabilità sul dove, come e con chi vivere; diritti che attengono a tutte le persone disabili e non disabili. Questa legge si propone invece di assicurare un futuro, ad una platea stimata in circa 260.000 disabili che vivono in famiglia, nel momento in cui i loro familiari e congiunti non potranno più occuparsene. E questo dovrebbe avvenire cedendo le loro case e i loro patrimoni ad assicurazioni, fondazioni, banche, grazie all’utilizzo forzato del Trust in questa legge. Un tremendo conflitto di interessi tra le stesse famiglie che evidentemente ignorano questo rischio destinato a trasformarsi in realtà quando non ci saranno più. In attesa di quell’immaginato roseo futuro intanto, le famiglie e congiunti non avranno alternative per alleviare il carico della schiavitù affettiva, restando comunque obbligati a dedicare la loro vita per assistere, anziché prospettare una vita adulta o inclusiva per quei figli, figlie, sorelle, fratelli.
Ci chiediamo con quale certezza questo futuro potrà avverarsi, lasciando in toto la “gestione”, nella solita logica della presa in carico che trasforma la persona umana senziente in un “bene materiale” qualsiasi. Questa legge non fa altro che stabilizzare la istituzionalizzazione delle persone disabili, secondo una sempre più frequente “protezione privatistica” edulcorata e agevolata proprio in termini fiscali, con buona pace di quel che rimane di uno Stato sociale e di quei diritti umani e soggettivi ormai dimenticati o venduti nel groviglio degli interessi clientelari. Abbiamo sentito negli interventi finali sulla votazione della Camera parlarle dell’importanza di considerare le persone con disabilità “un patrimonio dell’Italia” e questa legge ci conferma il senso in cui è interpretato appunto quel patrimonio. Ad ulteriore conferma del fallimento del welfare inclusivo e del cambio di paradigma della Convenzione ONU sui diritti dei disabili.
Come già scritto nel precedente comunicato, ENIL Italia è assolutamente consapevole della grande necessità di dover finalmente affrontare questa problematica e della enorme urgenza di normare percorsi di sollievo alle famiglie, ma questa legge sul cosiddetto Dopo di noi prospetta una unica direzione di vita per le persone con disabilità, che dovranno continuare a rimanere segregati in istituti, strutture e nelle loro “case”, gestite ed amministrate da altri. Questa legge non può e non deve poggiare su riferimenti dell’art. 19 della Convenzione ONU, appositamente citati come finto alibi, perché non genera né indipendenza né deistituzionalizzazione delle persone con disabilità e non contiene indirizzi concreti per una progressiva inclusione sociale, il diritto ad una vita adulta e per la chiusura delle istituzioni segreganti. Al contrario utilizza ulteriori fondi pubblici per svendere i compiti istituzionali dello Stato, mantenendo e incrementando convenzioni e finanziamenti per trattenere le persone disabili confinate in case famiglia e istituti, continuare a costruirne altre e altri, trasformando anche le case di proprietà delle famiglie delle stesse persone disabili in residenze comuni.
Ci chiediamo anche se, come e quando, nel rispetto di equità sociale e della non discriminazione, così celermente come fatto con questa legge sul Dopo di noi, saranno definiti efficaci finanziamenti vincolati e strutturati (non inutili micro-fondi) per dare risposte anche ai restanti 3.000.000 e oltre di persone con disabilità gravi che da anni sognano una reale inclusione, una vita dignitosa e libera in base alle proprie scelte ed aspirazioni.

mercoledì 11 maggio 2016

Lezione sulla Vita Indipendente (con riferimento alla legge abruzzese)

Lezione del 11 maggio 2010 sulla Vita Indipendente
L’espressione “vita indipendente” può essere intesa in diversi modi: può indicare una generica tensione verso un modo di vivere pienamente autonomo, ma può indicare anche qualcosa ben precisa (ed in questo caso, in genere, si usa la maiuscola, proprio come se fosse un’etichetta), ovvero un sistema di assistenza indiretta[1] rivolta ai disabili gravi, così come definiti dell’articolo 3 della legge 104/1992.
In Italia il Veneto è la regione a statuto ordinario dove questo discorso è stato sviluppato maggiormente: anzi, i primi progetti sono stati introdotti a livello sperimentale proprio nel Comune di Venezia e già nel 2004 (comunque dopo una fase di sperimentazione) sono state individuate le linee guida per la Vita Indipendente definita come “la possibilità per una persona adulta con disabilità fisico – motoria di poter vivere come chiunque”.[2] Nelle stesse Finalità dice anche che “base di ogni progetto di Vita Indipendente è l’assistente personale”.[3]
Nelle Linee guida questa forma di assistenza viene precisamente definita: indica i limiti di età entro i quali si applica la Vita Indipendente, ovvero adulti fino a 65 anni[4] (nella legge abruzzese il limite è 67 anni) in situazione di gravità e determinati a svolgere vita indipendente al di fuori della famiglia (e che ovviamente siano in grado di farlo). Bisogna tenere presente che quando si parla di “gravità” ci si riferisce alla definizione presente nel terzo comma, articolo 3, della legge 104/92.[5]
Successivamente ci si concentra sulla figura dell’assistente personale. Definite le sue mansioni, che sono tutte rivolte alla gestione “pratica” della quotidianità (alimentazione, vestiario, socializzazione, ecc.), si esclude che l’assistente possa essere un famigliare (mentre la legge abruzzese lo ammette). Questa può sembrare una misura illiberale, ma bisogna considerare che tra assistito ed assistente deve comunque instaurarsi un regolare rapporto di lavoro, anche sotto l’aspetto contrattuale, ed è difficile instaurare questo tipo di rapporto con i propri famigliari senza intercorrere in qualche forma di conflitto di interessi. Secondariamente un progetto di Vita Indipendente non deve tendere solo all’indipendenza del disabile, ma anche all’emancipazione dei suoi famigliari dalle necessità di cura del disabile stesso. Per ultimo nell’instaurazione di un regolare rapporto di lavoro tra assistente ed assistito c’è un’assunzione di responsabilità: nello stipulare il contratto, il disabile diviene un vero datore di lavoro, assumendosi tutte le responsabilità proprie dei datori di lavoro (ad esempio, studio della normativa sul lavoro e la retribuzione). L’assistente ha una formazione specialistica sulle tematiche della Vita Indipendente, ed è lo stesso disabile che si occupa della sua formazione. Ovviamente tale assistenza deve essere precisamente rendicontata.
Tenendo fermi questi principi, vengono definiti i progetti di Vita Indipendente, valutando i seguenti parametri:
-          Gravità
-          Reddito personale
-          Consapevolezza del richiedente nella gestione del progetto
-          Minori risorse esistenziali
-          Condizione famigliare
-          Condizioni abitative ed ambientali.
Tale valutazione viene svolta dall’Unità di Valutazione Multidisciplinare della ASL di riferimento, e comunque il disabile stesso partecipa alla definizione del suo progetto.
Ovviamente è anche possibile che il progetto sia revocato, nel caso si abbia violazione degli obblighi contrattuali o il trattamento economico o lavorativo dell’assistente sia contrario alle norme generali dei lavoratori. In ultimo, si ha revoca del progetto quanto non si riesca a provare che i fondi erogati siano stati completamente usati per la gestione del progetto stesso.
Sin dall’inizio è stata previsto un ampio sostegno a coloro che vogliono usufruire della Vita Indipendente, ed ovviamente anche in Veneto. I Centri di Vita Indipendente (in America CIL – Centre of Indipendent Living) svolgono questa funzione, fornendo supporto a tutti i livelli: da quello legale ad informazioni su trasporti e servizi, fino a consigli pratici sul modo di affrontare la quotidianità. Il sostegno è di tipo paritario, e per questo, per statuto, vi lavorano persone disabili (e comunque il loro presidente è sempre una persona disabile). In Italia un esempio di Agenzia è l’AVI Toscana.
In Abruzzo l’introduzione della Vita Indipendente risale al 2012, con la LR 57. Questa è in linea con la legge del Veneto per quanto riguarda la sua finalità principale, come anche sulle modalità di accesso ai progetti, ma differisce in diversi aspetti: innanzi tutto, pur delineando la figura dell’assistente quale operatore specializzato, non vieta esplicitamente che tale possa essere un parente anche se, comunque, è specificato che tra disabile e assistente deve esserci un contratto di tipo privatistico (d’altra parte la legge separa nettamente la Vita Indipendente da altre forme di sostentamento famigliare). Secondariamente nella legge veneta non sono previsti i livelli assistenziali previsti dalla regione Abruzzo.  Inoltre la legge non vieta la possibilità di usufruire di altre fonti di sostentamento come l’assegno di accompagnamento (punto questo, che a dire il vero, è in linea con le linee guida del Veneto, che addirittura dichiarano, nelle finalità: “con invalidità al 100% ed indennità di accompagnamento”).
In quanto alla formazione degli operatore, si dichiara la necessità che questi siano formati proprio sulla Vita Indipendente, ed è per questo che lo stesso disabile che dovrà usufruire del progetto si occuperà egli stesso della formazione del suo assistente.


[1] Come noto, l’assistenza è “diretta” quando è lo stato che elargisce direttamente l’assistenza, tramite cooperative ed altri enti assistenziali, altrimenti (ad esempio assistenze personalizzate) l’assistenza è indiretta, in quanto lo stato offre il servizio indirettamente. Infatti qui si tratta di rimborsi fatti dietro presentazione di regolare fattura. Nei paesi anglosassoni è l’esatto contrario: l’assistenza è diretta quando lo stato non deve intervenire direttamente nell’erogazione del servizio di assistenza. Nel caso debba intervenire, l’assistenza è indiretta.
[2] Finalità e obiettivi
[3] Prosegue dicendo: È una modalità di servizio nuova ed innovativa che si differenzia notevolmente dalle forme assistenziali tradizionali ed è una concreta alternativa al ricovero in qualunque tipo di struttura, a favore della domiciliarietà.
[4] In teoria anche i bambini potrebbero usufruirne, in pratica la situazione è più complessa, in quanto la tematica della disabilità s’incrocia con quella della tutela dei minori.
[5] Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici

martedì 3 maggio 2016

STORIA DEL MOVIMENTO (da L'Assistenza Personale per una Vita Indipendente - Elisabetta Gasparini)



Nel 1962,  Ed  Roberts viene  accettato  all’Università  della   California  a  Berkeley  ma  non  trova  un  alloggio  adatto  a  lui.  È  solo  grazie  alla  sua  ostinata  insistenza,  salda  anche  dopo  i  primi  dinieghi,  che  ottiene  di  venire  accomodato  almeno  nell’ospedale   Cowell   del   campus   dove   però   chiedeesplicitamente  di  non  venir  trattato  come  un  malato.  Gli  viene  permesso  di  scegliersi  un  assistente  privato  che  lo  affianchi  nella  vita  universitaria  e,  dopo  di  lui,  l’ospedale diventa   alloggio   di   altri   studenti   con   disabilità   gravi.  Insieme  si chiamano The Rolling Quads e combattono   la  loro  battaglia antidiscriminatoria così come in quel periodo stanno facendo le persone di colore e altri gruppi. 
Ecco  come  nasce  il  primo,  embrionale,  progetto  di  Vita  Indipendente:   Roberts   e   gli   altri   pionieri   ottengono un finanziamento  federale  per  un  programma  dedicato agli studenti con disabilità in cui gli interessati possono, tra le altre cose, ricorrere ad assistenti retribuiti per poter partecipare alla vita universitaria come gli altri. Si tratta dei primi Assistenti Personali  della  storia  di  Vita  Indipendente.  Per  lo  più  sono  compagni  di  corso,  istruiti  dagli  studenti  disabili  stessi.
Il successo dell’iniziativa è contagioso e le adesioni superano i confini del campus. Il gruppo di Roberts fonda il primo Centro per la Vita Indipendente[1] (ILC – Independent Living Center o CIL – Center for Independent Living) per dare informazioni e  consigli  alla  pari,  da  disabile  a  disabile,  sull’Assistenza  Personale  e  altri  argomenti.  In  breve  i  CIL,  finanziati  dal Governo Federale, si moltiplicano e verso la metà degli anni Settanta  diventano  numerosi  anche  fuori  dalla  California. 
Sarebbe però semplicistico attribuire lo sviluppo del movimento a ciò che è accaduto in un’unica città universitaria. Nel 1970, all’Università  di  Long  Island,  a  Brooklyn,  Judy  Heumann  e  altri  studenti  con  grave  disabilità  fondano  l’organizzazione  Persone Disabili in Azione (DIA - Disabled In Action) e notizie di eventi simili provengono da tutti gli Stati Uniti. L’eco delle iniziative, delle proteste e delle dimostrazioni arriva infine al Congresso degli Stati Uniti che nel 1990 emana un documento importantissimo, l’Americans with Disabilities Act (ADA), atto che stabilisce un chiaro e completo veto alla discriminazione sulla base della disabilità rendendo costituzionale il diritto alla non discriminazione delle persone con disabilità e prevedendo una pena per i trasgressori.

La Svezia e STIL

La filosofia della Vita Indipendente viene fatta conoscere in Europa  da  Adolf  Ratzka,  un  giovane  tedesco  con  disabilità  che vince una borsa di studio per l’Università della California, dove  entra  in  contatto  con  Vita  Indipendente  e  sperimenta  l’Assistenza  Personale.  E  quando,  nel  1973,  si  trasferisce  in  Svezia, si adopera per diffondere la proposta americana.
Nel 1984,  dopo  aver  organizzato  il  primo  convegno  scandinavo  sulla Vita Indipendente, con Ed Roberts e Judy Heumann in rappresentanza  del  ramo  americano  del  movimento,  raduna  un  gruppo  di  persone  con  disabilità  grave,  insoddisfatte del  servizio  di  assistenza  tradizionale.  Insieme  fondano  la  cooperativa STIL (Stockholm Independent Living[2]), i cui soci sono tutti persone con disabilità grave che scelgono di essere utenti di un nuovo servizio di Assistenza Personale ottenuto attraverso  un  accordo  con  la  municipalità  di  Stoccolma. 
Ecco gli estremi dell’accordo: ogni socio concorda con l’ente pubblico  un  certo  numero  di  ore  settimanali  di  assistenza  e  viene pattuito un prezzo lordo medio per ogni ora di servizio. Attraverso STIL ciascun socio riceve l’importo che copre il costo delle ore assegnate e ha un budget da amministrare in un arco di tempo concordato, generalmente un anno. Può usarlo solo per retribuire l’Assistente Personale e deve giustificarne la spesa. STIL svolge quindi un ruolo amministrativo controllato e autogestito dagli stessi soci. Inoltre, come i Centri per la Vita Indipendente americani, offre un servizio di Consulenza alla Pari e veri e propri corsi di formazione per le persone con disabilità.
Il ruolo di STIL e quanto fatto e scritto da Ratzka[3] sono stati determinanti per la diffusione dell’Assistenza Personale e della Vita Indipendente. Nel 2008 il Consiglio Europeo Antidiscriminazione dedica proprio ad Adolf Ratzka l’annuale European Citizen Award (Premio per il Cittadino Europeo), in riconoscimento degli straordinari risultati da lui ottenuti negli ultimi decenni con il suo lavoro, contro le discriminazioni e a favore della partecipazione delle persone con disabilità nella società.

L’Europa

È  il  14  aprile  del  1989  quando  al  Parlamento  europeo  di Strasburgo, in una conferenza cui partecipano rappresentanti di  diversi  Paesi  europei,  si  approva  un  programma  per  lo  sviluppo  dei  servizi  di  Assistenza  Personale.  Gli  ottanta  rappresentanti  provengono  da  Olanda,  Inghilterra,  Italia,  Svizzera,  Svezia,  Francia,  Austria,  Finlandia,  Belgio,  Stati  Uniti, Ungheria, Germania e Norvegia. È in questa occasione che  nasce  ENIL (European Network on Independent Living)[4],  il  principale  organismo  promotore  in  Europa  della Assistenza  Personale.  Molte  sono  le  sue  iniziative:  marce,  meeting,  convegni,  progetti,  scritti  e  documenti.  Tra  questi  ricordiamo  la  risoluzione  di  Berlino  del  1992  in  cui  ENIL definisce  il  termine  “Vita  Indipendente”  e  il  suo  utilizzo.
Negli anni successivi i movimenti delle persone con disabilità in Europa si adoperano per rafforzare la filosofia e soprattutto la pratica della Vita Indipendente all’interno dei singoli Stati e nella Comunità Europea. Nel marzo 2002, la dichiarazione di Madrid, documento conclusivo del Primo Congresso Europeo sulla Disabilità, a proposito dei servizi che promuovono la Vita Indipendente  afferma:  «Molte  persone  con  disabilità  hanno  bisogno di servizi di assistenza e di sostegno nella quotidianità, e questi servizi devono essere di alta qualità, rispondenti alle loro  necessità:  devono  promuovere  il  coinvolgimento  nella  società, e non essere motivo di segregazione».
Nel 2003, Anno Europeo delle Persone con Disabilità, ENIL produce altre due dichiarazioni: quella di  Strasburgo sull’Assistenza Personale e quella di Tenerife scritta in occasione del Primo Congresso Europeo   sulla Vita Indipendente.  
Negli ultimi due decenni gli Stati europei recepiscono, anche se in modo difforme, i principi dell’Assistenza  Personale, traducendoli in soluzioni concrete diverse tra loro: il modello di  STIL  si  moltiplica  quasi  subito  in  altre  città  svedesi  e viene  esportato  in  Norvegia  grazie  alla  cooperativa  Uloba.[5]
In Inghilterra e in  Irlanda, invece, l’assistenza  autogestita si fonda su modelli più individualistici in cui la singola persona, senza il tramite della cooperativa, contratta direttamente con l’ente  pubblico.  Questa  modalità  si  chiama  di  “pagamento  diretto”.[6]
Il  servizio  di  Assistenza  Personale  esiste  anche  in  Belgio,  Finlandia,  Olanda,  Austria,  Germania  e  ancora  in  Spagna, Slovenia, Croazia, Svizzera e in altri Paesi anche al di fuori dai confini europei. Specialmente nel nord Europa oggi è diventato una pratica comune.